Il capitano Jack Sparrow e la sua bussola magica
Chi ricorda la bussola del capitano Jack Sparrow?
Era uno strumento magico che Sparrow aveva barattato dalla sacerdotessa voodoo Tia Dalma e, al contrario delle bussole normali, non mostrava il Nord. Non si basava su un punto di riferimento esterno, ma su chi la utilizzava: serviva a mostrare la direzione per raggiungere la cosa che più desiderava chi ne era venuto in possesso.
Se non si era convinti, la confusione veniva immediatamente percepita dalla bussola che non mostrava più nulla perché l’ago girava a vuoto, confuso a sua volta.
Questa metafora sta a indicare che i riferimenti della nostra vita e tutti gli strumenti che usiamo per orientarci, dipendono sempre e solo da quello che vogliamo e da quanto intensamente lo vogliamo. Quando la confusione prende il sopravvento dentro di noi, nessuna bussola può indicarci la rotta.
1 gennaio: Pronti a muovere!
È iniziato un nuovo anno ed è bene fare il punto nave per capire se stiamo veleggiando nella giusta direzione e, nel caso, correggere la rotta.
La bussola del mitico Jack, se presa in mano da noi, girerà a vuoto?
Per quanto mi riguarda, se avessi consultato il magico manufatto due anni fa, non appena entrata nel Fondo di pre-pensionamento aziendale, questo avrebbe percepito il mio stato di profondo smarrimento, puntando l’ago verso il nulla.
Dopo qualche giorno di euforia per quella libertà ricevuta tutta in una volta, ero confusa, annoiata, soffrivo per una serie di mancanze che si possono talvolta manifestare a seguito di un cambiamento di vita così radicale, quali:
- la struttura delle giornate,
- lo status sociale,
- un’identità professionale,
- il riconoscimento da parte degli altri,
- il sostegno dei colleghi,
- l’ufficio stesso.
Di colpo ero costretta a modificare abitudini, ritmi.
E non ero preparata. A due anni di distanza, mi sento cambiata e l’ago della bussola questa volta punta verso un punto preciso. La mia voce non è più stressata, i miei sensi sono aumentati, sono maggiormente connessa con il mondo che mi circonda, la mia capacità di percepire le cose si è amplificata.
È difficile da spiegare: vedo di più.
Prima guardavo i tramonti, ma non li vedevo veramente, pensavo alla relazione che avrei dovuto fare il giorno dopo; guardavo i colori della natura con antipatica indifferenza, stile Mercoledì, posando lo sguardo frettoloso su piante, fiori, ecc. figurandomi quello che avrei dovuto inserire in una certa presentazione in powerpoint, il mio vero incubo.
“Questo è un pitosforo!” mi indicava mia sorella, mentre parlavamo fra le siepi di un giardino, ma io non capivo l’importanza di riconoscere e di dare un nome alle piante. Sogghignavo alla parola “pitosforo”, prendendola bonariamente in giro.
Ora noto scorci della mia città che prima mi erano stati interdetti, come se qualcuno avesse posto un paravento al mio passaggio. Cammino con il naso in su per non perdere nessun particolare dei maestosi palazzi Liberty che fanno bella mostra di sé nel cuore di Trieste; mi stupisco delle ripide strade in salita, delle strade tortuose, delle strade quadrate.
In pratica, mi sono “disintossicata” dal lavoro fatto in un certo modo, senza abbandonarlo del tutto. Attraverso un processo di ricostruzione di me stessa, fatto di vari step, sono riuscita a disegnare una nuova identità professionale ritrovandomi a far parte della cosiddetta “economia della passione”, un eco-sistema in cui le persone fanno di più ciò che amano. Questa meravigliosa definizione si riferisce alla nuova realtà che si sta profilando in questo momento storico ed è un fenomeno che attraversa le generazioni.
Le persone preferiscono un maggior worklife balance, più flessibilità e un lavoro che abbia un valore al di là della performance. Che tradotto vuol dire essere persone capaci di lavorare bene pur dedicando sempre più tempo ad altro. Quindi si tratta di focalizzarsi su un lavoro che abbia un valore aggiunto, permettendo di coltivare la qualità delle relazioni e di vivere pienamente la vita, vedere i tramonti, dare un nome alle piante.
La sindrome della papera
Si legge in un interessante articolo di Eva Campi “Dalla sindrome della papera al quiet quitting: così cambia il mondo” come molti lavoratori stiano rivedendo le proprie priorità, alla ricerca di un lavoro autonomo o nuovi tipi di attività maggiormente vivibili.
Sembra quindi che la cultura del workaholic, quella che spesso causa la sindrome dell’anatra, stia vedendo il suo tramonto. Il termine “sindrome dell’anatra” nasce dall’immagine di una papera che sembra nuotare con tutta tranquillità sull’acqua di un placido lago ma che, sotto la superficie, sta remando freneticamente con le zampe solo per mantenersi a galla. Questa sensazione di “galleggiamento” può essere associata a qualsiasi persona che sembra avere tutto sotto controllo ma che, in realtà, sta facendo uno sforzo immane per soddisfare le continue richieste del lavoro assieme a quelle della propria sfera personale, della famiglia e della società in generale.
Vi ritrovate in questa immagine di “anatra esausta”?
Il troppo lavoro ostacola la ricerca della felicità?
Luca Foresti, nel suo articolo “Lavorare troppo non è figo”, pone in evidenza il pericolo di riservare molto tempo al lavoro sottraendolo al resto. Purtroppo, questo “resto” ha a che fare con la ricerca della felicità e con l’efficacia del lavoro stesso.
L’autore riporta il risultato di studi fatti sui pensieri di chi sta per morire e per la maggior parte convergono sugli stessi temi:
“Avrei voluto avere il coraggio di fare quello che desideravo, non quello che gli altri si aspettavano da me
Avrei voluto lavorare di meno
Avrei voluto avere il coraggio di esprimere i miei sentimenti
Avrei voluto stare maggiormente con le persone importanti
Avrei voluto essere più capace di essere felice”.
La felicità, quindi, risulta essere molto legata alla qualità delle relazioni umane che siamo in grado di mantenere e coltivare. Richiede sforzi, attenzione e tempo.
Sull’altro piano, quello della produttività, Foresti sostiene che per essere veramente incisivi in un lavoro complesso, è fondamentale ampliare i propri orizzonti e la propria cultura attraverso la lettura, la creatività, i viaggi e il confronto con altre persone in ambienti in cui non ci siano strutture gerarchiche a condizionare il dialogo.
In sintesi, dice Foresti, per fare lavori complessi bisogna coltivare una mente complessa e densa di stimoli.
Il nesso fra questi due articoli sembra evidente: in fondo, il lavoro esageratamente assorbente, fatto di sacrifici e competizioni, ci fa diventare delle “anatre esauste”, francamente poco felici. Il fenomeno del quiet quitting ci sta raccontando molto: a un certo punto, come si dice nell’articolo precedente, c’è un cambio di rotta e anche le anatre più motivate smettono di remare.
In conclusione
Nel fare il punto nave di inizio anno, indipendentemente dalla fase in cui ci si trova (prossimi alla pensione, neopensionati ecc), bisognerebbe considerare le opportunità che questa svolta nella vita ci offre.
La vita in pensione ci permette, ad esempio, di entrare direttamente nel mondo dell’economia della passione. Se siamo stati delle anatre esauste, incapaci di mantenere un equilibrio fra lavoro e vita personale, ora abbiamo la possibilità di continuare a svolgere un’attività produttiva che ci dia soddisfazione, magari part-time, con minori responsabilità dirette e con orari più accettabili. Oppure:
- possiamo svolgere un’attività utile alla società e lasciare un’eredità positiva;
- dedicare molto più tempo alle relazioni con le persone che contano;
- avvicinarci al settore pubblico, aiutando una scuola, un gruppo di giovani artisti che richiede supporto (“Io attivo il mio tempo” – Maecenates);
- scoprire nuove passioni che non sapevamo di avere, avventurandoci in campi che non conoscevamo;
- realizzare un sogno tenuto nel cassetto.
L’importante è avere le idee chiare su ciò che si vuole fare e che tipo di vita in pensione si vuole condurre. In poche parole è necessario seguire una mappa che tenga conto delle nostre aspirazioni. Solo così l’ago della bussola bel buon Jack indicherà la rotta per ripartire nel 2023 con le vele spiegate e il vento in poppa!
Adesso tocca a te:
• Cosa ti piacerebbe fare una volta in pensione? Hai le idee chiare o sei ancora confuso/a?
• Sei già in pensione e hai continuato a lavorare? Fai del volontariato?
• Ti risulta familiare l’immagine della sindrome dell’anatra?
Gentile Michaela, questo tuo articolo parla proprio al mio cuore! Pur avendo appena compiuto 64 anni, mi trovo a dover lavorarne ancora tre e l’anno appena passato è stato difficile per problemi di salute in famiglia. Spero che questo 2023 porti almeno serenità.
Anatra frenetica, secondo me lo siamo un po’ tutte noi della generazione boomer, strette fra casa, lavoro, figli che non se ne vanno di casa (e magari anziani ancora da curare), contando anche che la forma e la forza non sono più quelle dei trent’anni.
In questo momento non riesco ancora ad immaginarmi in pensione, so solo che quello che NON vorrei è una sequela di giorni grigi e ripetitivi..lasciandosi vivere piuttosto che vivere pienamente. Mi ritengo una persona dalla mente aperta ed attenta, mi piace leggere, visitare mostre, viaggiare e conoscere posti nuovi e questo senz’altro lo continuerò a fare (nei limiti del possibile).
In questo periodo rifletterò senz’altro sulla direzione della mia bussola personale e continuerò a seguire i tuoi scritti. Grazie.
Ciao Simona,
Da quello che traspare dal tuo messaggio, penso che la tua vita in pensione sarà ben distante da una sequenza di giorni grigi e vuoti…Sei una persona piena di interessi e curiosità. Viaggiare, fra l’altro, è una di quelle cose che fanno un gran bene perché mette in gioco delle parti preziose di noi che vengono fagocitate dalla routine quotidiana. Esplorare cose nuove, rimettersi in gioco rimettono in circolo l’energia. Quindi non mi stupirei affatto di rivederti fra qualche anno come una futura “retiree rebel”, ovvero una futura pensionata super attiva, capace di vivere appieno e con gioia questa fase della vita!
A prestissimo e grazie molte per il tuo contributo!
Michaela, it pleases me beyond words to know that your compass has stopped spinning and is pointing to your “True North.” Great metaphor, and a good illustration of the “messy middle” so many retirees struggle to navigate. I, like you, know where I’m heading. And I love it!
Fritz, thank you so much for your comment! Now I know where my compass is pointing to after a long phase of “stormy weather”. In this process, I have learned a lot from you, who I consider my Retirement Mentor, and from all the readers of the Retirement Manifesto as well. It is really worth reaching out to others who have struggled before or are expert on retirement transition!